PERCORSO PITTORICO
 
 

Quotidiano "Il Tiraccio 2000", Agosto - Settembre 2001, pag. 7
"IL RICICLAGGIO NELL'ARTE DI D'ACUNZO"
, di Stefania Rizzo

"Personalità poliedrica ed eclettica, V. D'ACUNZO con la sua inarrestabile urgenza di scavo e di ricerca, dopo un lungo travaglio umano ed artistico, ha trovato nel riciclaggio la forma adatta a dare voce alla propria anima ed alla quale affidare la sua personale visione della realtà e delle cose. L'urgenza di scavare nell'abisso più fondo delle cose, di voler farsi carico di indagini, si traduce, in D'ACUNZO in ricerca di oggetti all' "apparenza" inservibili che l'autore manipola per ingentilirli poi con il valore e dar loro un senso che rasenta il metafisico. Pezzi di elettrodomestici, antenne televisive, vecchi orologi, legni ed eternit vengono così ricomposti ed inseriti in opere definite "Mininstallazioni". Queste sono per l'artista dei progetti da sviluppare eventualmente in "Installazioni". In esse sono il colore e la materia riciclata che contano, il fondo e la cornice in cui vengono inserite, infatti, sono dichiarati a monte provvisori, lasciati all'arbitrio e alle esigenze dello spettatore. Costanti delle mininstallazioni sono pezzi di orologi e reti metalliche. I primi sottendono l'idea incalzante, ossessiva del tempo, esterno ed inarrestabile, del vissuto che cadendo si deposita ammucchiando i suoi avanzi per divenire infine tempo interiore. La struttura reticolare è elemento di separazione dal fondo o il labirinto del quotidiano su cui ci muoviamo. Ultima delle "Installazioni" è il "Miramare", vetrata di ingresso del locale omonimo sito a Roseto, eseguita con materiali riciclati in parte rinvenuti durante i lavori di costruzione dello stesso. In "Miramare" l'arte riciclata di D'Acunzo diventa espressione della condizione umana improntata ad una concezione pessimistica dell'esistenza di cui è simbolo lo schematismo della rete metallica a spazi fissi e regolari. Forte e netta è la linea di demarcazione posta in basso su cui va ad infrangersi il tempo sentito pesantemente come limite alla conoscenza e alla miseria culturale: disperata rassegnazione e lucida consapevolezza dell'essere finito cui è negata la soglia dell'oltre. E l'oltre artistico è la sfida che D'Acunzo lancia a se stesso e rinnova di volta in volta: ricercatore indefesso, egli è costantemente proteso a oltrepassare i confini sempre provvisori della sua arte. Questo processo di trasformazione e continuo superamento del precedente lo ha condotto a una forma di estremizzazione del riciclaggio che si è concretizzata a livello pittorico in una rivisitazione del mito classico. Nell'ultimo periodo l'artista ha usato come supporto delle sue opere il retro di manifesti utilizzati per riguardare il pavimento durante i lavori di esecuzione di "Miramare". Dai manifesti imbrattati dei colori casualmente caduti, l'autore ha ricavato fogli disuguali su cui ha inserito, senza violentare la superficie preesistente, personaggi mitologici (Ade e Persefone, Ercole ed Esione, Orfeo ed Euridice, Giasone, Deucalione e Pirra, Niobe). Dei ed eroi dai corpi muscolosi sono resi con tocchi sempre più esperti e linee sempre più esili, figure quasi stilizzate. I soggetti dell'ultimo D'Acunzo vivono la dualità perenne di una vita propria legata alla storia ispiratrice e di una vita derivata che trae origine e senso dalla casualità che mai in D'Acunzo è caos. Il mito, liberamente rivisitato, diventa strumento d'indagine sull'uomo. E' l'uomo moderno che si cela nell'interpretazione figurativa e l'umana partecipazione dell'artista alle sue miserie. Appare evidente come una modestissima ispirazione pervada le ultime opere. Rivelatrice è a tal proposito la scelta dei soggetti (Prometeo, Andromeda, Acrisio, Giasone, Niobe) ritratti nel momento della sconfitta, reale o apparente, definitiva o provvisoria che sia. Tale scelta sembra scaturire da un'attenta lettura del mito al quale D'Acunzo si accosta con l'entusiasmo del neofita. L'artista si immerge nelle fitte pagine delle favole antiche sorretto dall'anelito conoscitivo che gli è proprio. Legge, si ferma, interiorizza e attende che il particolare meno eclatante sulla scia di un'intima riflessione maturi un'idea e un'immagine. Nascono così, forse, questi personaggi aitanti e fieri nei loro corpi di mirabile fattezza accomunati, in D'Acunzo, dall'essere comunque prigionieri. L'artista non ne immortala le gloriose e audaci imprese ma ne cattura l'eroica forza nei momenti di assoluta disperazione o la nobile dignità nella straziante sofferenza, mirando ad evidenziare la piccolezza dell'uomo di fronte alle alterne vicende della vita e alle forze inesorabili del fato.Esempio ne sono le due opere che si ispirano direttamente o implicitamente al mito di Perseo, "Perseo ed Acrisio" ed "Andromeda". Nella prima Perseo, il corpo muscoloso teso nel lancio del disco, posto in evidenza a primeggiare nello spazio, solo apparentemente risulta dominante. Allo spettatore accorto non può sfuggire come la sua immagine sia turbata dalla testa di Acrisio che si erge netta su una messa di capi anonimi, resi con semplici linee. Nella seconda il mito è solo un pretesto di cui si serve l'artista per esprimere il proprio interesse verso le tristi vicende umane. Perseo prima funzionale ora è addirittura assente. D'Acunzo sa e volutamente tace la liberazione di Andromeda. Acrisio e Andromeda diventano in D'Acunzo simbolo dei "vinti" e tali si configurano anche Esione e Giasone. Costante della triade dedicata a Giasone, ritratto ora solo ora "accompagnato" da Medea, è la nave Argo, testimone, comprotagonista, metafora dell'intera vicenda umana dell'eroe. Nessuna tensione concettuale ed escavatrice sostiene "Ercole ed Esione". Ciò corrisponde ad una precisa scelta dell'artista che intende qui porre in risalto unicamente la differenza delle masse dei corpi. Le due figure traggono vita da un fondo carico di vissuto e col fondo si armonizzano nel pieno rispetto dei colori e della casualità preesistente: Ercole, robusto e massiccio, solleva non il trofeo della vittoria ma la delicata Esione, leggera come il tratto che delinea i due corpi. L'opera prefigura la sintesi concettuale e la compiuta compenetrazione tra casualità e riciclaggio che troveranno culmine nella "Niobe protegge vanamente Melibea". Niobe, colpita nella sua superbia è l'immagine del dolore e dell'impotenza. La mano, nell'estremo tentativo di ribellione mista a preghiera, è chiusa a pugno, ultimo barlume di una arrogante fierezza inesorabilmente punita. L'originalità dell'opera è nell'impostazione delle due figure che, poste su piani separati, risultano quasi incise sul fondo. Non esistono più le masse nelle figure; è visibile soltanto il tratto del pennello che secco va ad intarsiare il fondo. Niobe protegge da lontano la figlia Melibea, innocente e inconsapevole vittima, ritratta in atteggiamento ludico. In Niobe si incarna l'amore materno privo di calore manifesto: amore freddo, lucido, mentale, diverso dagli abbracci di disperazione con figure aggrovigliate, eppure altrettanto incisivo come il lavoro di cesellatura che ha compiuto l'artista nell'esecuzione dell'opera."

Q21

 

momento mitologico

 

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